IL MONASTERO: LOCUS AMOENUS O SOFFOCANTE PRIGIONE?

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«Fuggi lontano dal mondo e ti salverai»; «Colui che vive nel deserto e vive nel raccoglimento è libero da tre battaglie, quella dell’udito, quella della chiacchiera e quella della vista; ne deve fare una sola, quella del cuore». Così si legge negli Apoftegmi, e si sente riecheggiare l’ordine divino impartito ad Abramo perché raggiunga la terra promessa. Il sentirsi straniero al mondo e il voler evadere da esso, sono temi ricorrenti sia nella letteratura basti pensare al Romanticismo), sia nella vita reale dell’uomo. Inevitabilmente l’essere umano fugge da qualcosa, o si trova in netta contrapposizione con gli ideali e i principi dell’epoca in cui vive, la soluzione a questi problemi è ad esempio la vita monastica, che spesso viene vista come un rifugio, come una struttura isolata, che vive lontano dai tumulti della vita, lontano dallo spazio, dal tempo, come in un’altra dimensione. È proprio col monachesimo che questo rifiuto del mondo, il contemptus mundi appunto, diventa stile di vita nuovo. «Volgi gli occhi intorno e, uscendo fuori del pelago delle tue cure affannose, guarda alla nostra condizione come a un porto e drizza lì la prora. È questo l’unico porto nel quale possiamo rifugiarci scampando a tutte le agitazioni del secolo procelloso». Così scrive Eucherio, monaco a Lérins, nel 430 a un giovane parente, esortandolo a rifugiarsi nell’isola-monastero antistante al capo de la Croisette, tra Cannes e Antibes. Non dissimile è l’immagine evocata da Ambrogio nell’Esamerone, quando descrive le isole abitate da monaci come il porto sicuro dove i canti dei salmodianti fanno a gara «con il mormorio delle onde che dolcemente si infrangono sul lido e le isole applaudono con la bonaccia dei flutti al coro dei santi».

Però nei primi secoli del Cristianesimo non mancarono le donne che scelsero una vita ascetica e di rinunce. Ma qual era la vita delle donne in quel periodo, e in che condizioni vivevano? La loro era un’esistenza molto dura, priva di qualsiasi potere economico, socialmente rilevante solo in virtù del matrimonio, sovente imposto, e della procreazione: una donna quasi sempre analfabeta, sottoposta all’autorità assoluta e spesso alla brutalità del marito, facile capro espiatorio di ogni male. Esempio tipico di questa condizione è quello raccontato dal Manzoni all’interno dell’Adelchi: la giovane Ermengarda, figlia di Desiderio, re dei longobardi, fu ripudiata da Carlo Magno, suo sposo. Per questo motivo decise di chiudersi in un monastero, ed è qui che le immagini del marito sono sempre legate alla violenza e al sangue: la caccia, il cinghiale trafitto dalla lancia, l’orrida maglia di ferro che Carlo depone al ritorno dal campo dio battaglia. Per questo Ermengarda rifugge dal contatto col mondo e si protende verso la sua vera patria che è il cielo.
È più facile dunque capire, alla luce di tutto questo, la valenza liberatrice di un’istituzione come il monachesimo: la donna trova nell’ingresso in monastero la possibilità di mutare la propria condizione sociale, di cercare se stessa in un contesto concreto e ricco di significato, con una marcata visibilità ecclesiale e sociale, sottraendosi al suo essere meramente funzionale all’uomo. Non si devono dimenticare i vantaggi che le donne ottennero dal punto di vista culturale grazie alla vita monastica. Non si trattava solo dell’accesso all’alfabetizzazione e di acquisire le elementari capacità di leggere, scrivere e far di conto, ma piuttosto di un apprendimento delle lettere, dinamico, che diviene per molte monache uso quotidiano costantemente affinato. Il monastero è una societas di donne che gestiscono tempi, spazi, lavori, economie in un’autonomia praticamente esente da qualsiasi interferenza esterna. É una societas di cui possono entrare a far parte a pieno titolo donne già schiave o libere, ignoranti o colte, nobili o popolane, ricche o povere, una societas la cui autorità – la badessa –è eletta liberamente con il voto di tutte le sorelle mediante quello che oggi chiameremmo un “suffragio diretto e universale”. Questo è infatti un unicum presente nella chiesa cattolica come in quelle ortodosse, e mai si è teorizzata una soggezione delle monache ai monaci. Ken Follett ,grande scrittore gallese, i cui libri, di argomento storico, hanno avuto successo mondiale al giorno d’oggi, i descrive alla perfezione questa realtà. Racconta la storia di una giovane donna, Caris che opponendosi al priore di Kingsbridge viene accusata di stregoneria. Questa in un primo momento riuscì a difendersi anche con successo, ma quando il priore ordinò che il suo corpo venisse analizzato dalle monache del priorato per vedere se avesse segni demoniaci sul corpo fu costretta ad abbracciare la vita monacale per salvarsi. (Nel suo corpo era infatti stato trovato un neo, nella parte sottostante l’ascella, e segni come questo durante il medioevo erano la prova inconfondibile che si era stati marcati dal demonio). Tuttavia Caris, all’interno del monastero riesce a realizzarsi, per la prima volta: lei, donna ha un ruolo importantissimo nella società : quello di contribuire ad aiutare i feriti e i malati di peste, che nel frattempo si era diffusa in tutta Europa. Attraverso le sue conoscenze mediche, poteva aiutare la gente a soffrire di meno, poteva dar loro conforto; e successivamente diventando badessa cercherà di cambiare la situazione dell’intero priorato che era diventato estremamente corrotto.
Ma non sempre il monastero fu inquadrato da questa prospettiva, specialmente quando le donne furono obbligate a prendere i vóti. Agli inizi dell’età moderna, tranne i casi di autentica vocazione volontaria e autonoma, la scelta dello stato monastico delle fanciulle spettava ai maschi delle loro rispettive famiglie e dipendeva da motivazioni esclusivamente connesse con quelle “strategie familiari”, che erano tese, oltre che a sistemare in qualche modo figlie illegittime o inadatte al matrimonio per evidenti difetti fisici, a conservare e accrescere il patrimonio domestico, senza intaccarlo con l’erogazione di ricche doti coniugali o con lasciti testamentari. Non tutte le donne erano infatti pronte a moderare drasticamente il vitto e il vestiario, a osservare l’astinenza sessuale e a condurre una vita assai ritirata; anche se inizialmente la vita in convento ,fino al concilio di Trento quando furono introdotte delle vere e proprie regole per la vita monastica, era più sopportabile in quanto non comportava la recisione dei legami familiari. La comunità familiare si perpetuava nel chiostro e l’assenza di clausura consentiva alle donne di visitare le parenti monacate, di servirsi delle celle monastiche per conservarvi i denari, i gioielli e i preziosi di casa nei momenti più turbolenti della vita cittadina, di usare la rinomata cucina monastica per organizzare i banchetti delle grandi feste domestiche, come i matrimoni e i battesimi. Emblematica è la storia della monaca di Monza, raccontata da Manzoni all’interno de “ I Promessi Sposi”. La storia di Gertrude è la storia di una lunga e tortuosa corruzione, ossia della trasformazione di un personaggio innocente in malvagio, seguita passo passo con una mirabile capacità realistica e inventiva; Gertrude ci viene presentata quando, addirittura, sta «ancora nascosta nel ventre di sua madre» Tuttavia non è del tutto giusto condannare la figura di questa donna : la poveretta in fin dei conti è stata costretta a vivere chiusa in un monastero dove inevitabilmente si confrontava con altre ragazze piene di speranze, che si trovavano in convento solo per ottenere una prestigiosa educazione. Esse le parlano della vita che le aspetta una volta uscite dal convento: carrozze, balli, abiti sontuosi, la vita coniugale, gioielli, ed è qui che Gertrude si rende conto che tutto questo le è precluso, è qui che comprende di essere stata presa in giro per tutta la vita e che in inizia a vedere la vita monastica come una soffocante prigione. È ovvio che tutto questo porta Gertrude a cambiare radicalmente, diventa inevitabilmente invidiosa di quelle ragazze, diventa malvagia, sovverte le regole del monachesimo, rompendo anche il voto di castità con Egidio.
Dunque la progressiva metamorfosi dell’innocente bambina prima in disperata bugiarda, poi in monaca fedifraga, quindi in adultera e infine in criminale, è quanto di più forte sia stato scritto sull’argomento della corruzione. Si confronti la storia di Gertrude con quella analoga della Religeuse di Diderot e si avrà l’impressione di paragonare un pozzo profondo di acqua nera e immobile a un liquido e veloce ruscello. Diderot conosce le cause della corruzione e ce le addita. Per Diderot la catarsi è fuori del romanzo, per il Manzoni, conservatore e cattolico, non c’è catarsi se non estetica. Ma la corruzione di Gertrude è una corruzione «bella»; ossia una corruzione misteriosa e oscura. Proprio in questa occasione Manzoni ci aiuta a capire in modo esplicito che, quando si va contro natura, cioè contro le naturali inclinazioni di una persona, che ha il diritto alla propria libertà di scelta e specificità; quando si va contro lo scopo vero della sua vita, il risultato è sempre disastroso e certamente doloroso. Gertrude trova una certa affinità con Maria, protagonista di storia di una Capinera di Giovanni Verga. La ragazze vive una situazione forse anche peggiore della monaca di Monza, fu costretta infatti dalla matrigna a recarsi in convento, nonostante l’amore che lei provava nei confronti di Nino, figlio dei vicini di casa. Maria vede il convento come una prigione, è come una capinera in gabbia, che guarda malinconica gli altri uccellini che cinguettano beati nel cielo. Voglio andarmene !Voglio uscire! Voglio fuggire…Aiutami!…Voglio la luce! Voglio correre!
Se dunque la figura di Gertrude è vicina a quella di Maria, non lo è affatto a quella di Piccarda Donati, sorella di Forese, che Dante incontra nel terzo canto del paradiso. Piccarda entrò nel convento fiorentino di santa Chiara, dal quale venne rapita per opera del fratello Corso, che volle darla in sposa a Rossellino della Tosa, suo alleato politico. La donna era realmente legata a dio e alla vita monastica, il monastero era la sua vera casa, il luogo a cui apparteneva, per questo Piccarda prova un immane dolore nel venir allontanata dalla sua precedente vita. Ella non è pronta alla vita coniugale, alla mondanità o ai lussi che la vita offre. Si narra fosse una donna caratterizzata da bellezza, bontà, gioia, che optò per il convento scegliendo Cristo quale proprio sposo, e lasciandosi “rapire” dalla fede. Tanto che probabilmente, secondo la leggenda, morì, dopo essere stata rapita e allontana dalla sua casa, in preda alla delusione e alle sue atroci sofferenze.

CHIARA SCARAVILLI V A

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