Le suore infelici della letteratura

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All’interno della letteratura medievale e post-medievali sono molti gli esempi di monacazione forzata, una forma di violenza che costituiva un limite per l’emancipazione femminile. La legge del Maggiorasco, vigente in tutta Europa fra il XVI e XVII secolo, stabiliva che il patrimonio, alla morte del padre, non si dovesse dividere fra i vari figli ma dovesse passare tutto in eredità al primogenito, affinché rimanesse integro e copioso. Gli altri figli, chiamati figli cadetti erano costretti a mantenersi con le proprie forze attraverso la carriera ecclesiastica o quella militare.  Per i figli maschi vi era comunque una maggior possibilità di scelta: essi potevano mettersi al servizio del primogenito, intraprendere il mestiere delle armi, arricchirsi per proprio conto nelle fila della borghesia cittadina o scegliere la carriera ecclesiastica. Per le donne, invece, non c’era scelta: l’unica strada erano i voti e una vita in convento interamente dedicata alla preghiera. Anche il matrimonio era a volte categoricamente escluso, in quanto la dote da portare all’altare era di gran lunga maggiore di quella da versare al convento per la monacazione di una figlia.

Questa pratica finì dunque per divenire un problema sociale, come testimonia la disputa tra la chiesa di Roma e la Serenissima circa la regola monacale. La repubblica di Venezia ormai consapevole del fenomeno della monacazione forzata, cercava di rendere il più piacevole possibile la permanenza all’interno del convento e si scontrava con la chiesa in quanto chiedeva di smussare alcuni aspetti della regola monacale riguardanti il vestiario, la gestione del cibo e dei rapporti tra le monache, ma anche il contatto con l’esterno. La Chiesa aveva invece più attenzione e interesse a che le monacazioni fossero il più convinte possibile. Emblematica è la frase di un magistrato veneziano che si occupava dei conventi, e testimonia la vastità del fenomeno: Quelle che vivono in Monastero come in un deposito son in numero tale che se fossero libere sarebbe sovvertito l’ordine di tutta la città.  La testimonianza più straordinaria dal punto di vista letterario di questa infelice condizione è la storia d’amore lasciata da una donna, la cui identità è rimasta sconosciuta, nelle Lettere di una monaca portoghese (1669). La protagonista non solo soffre per la lontananza dell’amato che vaga per il mondo, ma soprattutto per la condizione in cui è stata costretta a vivere: Io non voglio non voglio 
immaginarmi che mi abbiate dimenticata. 
Perché mi tormento con la mia stessa fantasia, 
non sono già abbastanza disgraziata 
per la realtà dello stato in cui mi trovo? Un altro esempio memorabile è quello di Denise Diderot in quale,basandosi su un caso giudiziario accaduto, denuncia il costume in uso presso le famiglie ricche di destinare alla clausura le figlie per motivi di interesse nel romanzo La religieuse (scritto nel 1758, pubblicato nel 1780-83). È emblematico in il passo in cui “La religiosa” descrive la cerimonia in cui prenderà i voti:Infine giunse il momento terribile. Allorché dovetti entrare nel luogo in cui dovevo pronunciare i voti, le gambe non mi ressero; due delle mie compagne mi presero sotto le braccia. La mia testa era reclinata su una di loro ed esse mi trascinavano a fatica. Non so che cosa accadesse nell’animo dei presenti, ma ciò che vedevano era una giovane vittima morente che si portava all’altare e da ogni petto sfuggivano sospiri e singhiozzi tra i quali sono certa che non si udivano quelli di mio padre e di mia madre. (La monaca, Denis Diderot,1983).Nei promessi sposi, però, ci viene fornito l’esempio più drammatico; Gertrude infatti non è solo stata costretta alla vita monacale, ma a causa di pressioni psicologiche la sua fanciullezza non è stato altro che un percorso propedeutico alla vita in convento. Come afferma Manzoni ancor prima ella che nascesse, essendo la secondogenita, il suo destino era già stato segnato: La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Nella seconda metà dell’Ottocento questo motivo si riaccende nel romanzo Storia di una capinera di Giovanni Verga . Per un tradizione ancora fortemente radicata in pieno Ottocento, in un ambiente fortemente ancorato alle consuetudini come quello della Sicilia, una ragazza è destinata al convento dal padre. Attraverso le lettere che la novizia invia a un’amica veniamo a conoscenza di un amore sbocciato improvvisamente che, in contrasto con l’ubbidienza e la fede, la porterà lentamente alla follia e alla morte. Voglio vederlo, le scrive, Voglio vederlo! Una sola volta! Un momento solo… Dio mio, è un gran peccato poi vederlo? Vederlo soltanto…da lontano…attraverso la gelosia! Egli non mi vedrà; non saprà che dietro quella gelosia ci è chi muore dannata per lui….

Puglisi Susanna VA

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