Il vecchio e la vecchiaia: da Terenzio, passando per Cicerone fino ai giorni nostri

giorgiaCercandola sul dizionario, “vecchiaia” significa letteralmente “fase più avanzata del ciclo biologico della vita, nella quale si manifestano vistosi fenomeni di decadenza fisica e un generale indebolimento dell’organismo” e così, più o meno, la pensavano i latini, poiché, la parola da cui deriva, appunto, “vecchiaia”, oltre al medesimo significato, ha come sinonimi ”tristezza, malinconia”. Terenzio diceva “senectus ipsa est morbus”, “la vecchiaia è per se stessa una malattia”, al contrario di Cicerone, che loda “quella vecchiezza salda sui fondamenti posti nella giovinezza” e che esalta i vantaggi che la terza età può recare. Seneca, invece, in “lettere a Lucilio”, racconta all’allievo, nonché amico, di aver lasciato la vecchiaia alle sue spalle, perché si parla di essa come un’età stanca, ma non affranta.

Egli non avverte nel suo animo ciò che avverte nel corpo, questa è la sua età fiorita, e, per questo, si deve lasciare che “goda di un bene che è tutto suo”. E, mutatis mutandi, nel ventunesimo secolo la concezione di vecchiaia, che sia intesa come stato fisico, o d’animo, non è cambiata per niente. Essa, come tutte le cose, ha due lati della medaglia e Benozzo si prospetta, in un certo senso, su quello di Terenzio, sebbene da un punto di vista attuale. Egli definisce la vecchiaia come un “graduale declino, un lento approssimarsi alla morte, una moltitudine di individui dai capelli bianchi che non può più far parte del meccanismo produttivo”. Questo porta pensare che, quando Terenzio paragonò la vecchiaia ad una malattia, si sia fatto “trascinare”, anche se solo in parte, dall’improduttività a cui porta il soprannominato, e tanto temuto, “autunno della vita”. Perché, proprio come in autunno le foglie cadono e gli alberi si “spogliano”, così la vecchiaia “abbatte” l’individuo, lo lascia senza energie e lo prepara all’inatteso, e inevitabile, inverno. Ma davvero, ai giorni nostri, si deve avere paura di invecchiare? Ormai si parla di vecchiaia solo come improduttività, non come saggezza. Non esiste più la concezione che dominava tra i latini, non esiste più il rispetto verso chi ha quasi portato a termine quella “sfida” che comunemente si chiama vita. Perché la vita è una sfida, e, col passare degli anni, diventa sempre in difficile non lasciarsi abbattere, soprattutto se ci si trova da soli. Meletti, giornalista de “la Repubblica”, racconta della moltitudine di telefonate che arrivano al call center dell’azienda Berghelli, da parte di anziani, semplicemente alla ricerca di affetto il giorno di Natale. Anziani che, probabilmente, non avranno la fortuna, o sfortuna che sia, di vivere un altro Natale. Perché è vero che la vita è un dono meraviglioso, ma solo se goduto appieno. Viene da pensare a quei nonni che, dopo aver dedicato un pezzo della loro vita ai nipoti, ad occuparsi di loro, al primo stento vengono quasi “abbandonati” in una casa di riposo. Chevalier diceva che la vecchiaia non è così male, considerate le alternative. Ma a quale prezzo? Parlare di anziani, in molti giovani, suscita quasi una condizione di rigetto di matrice culturale. Ciò dipende sicuramente da una sorta di rottura, di falla generazionale che purtroppo è molto diffusa in una società falsamente ed ipocritamente evoluta. Prevale l’idea che se non si è funzionali, non si è utili. Tutto ruota intorno al lavoro, e sin da piccoli si punta ad uno ben retribuito. Si parla di “problem solving”, tutti sono, ormai, macchine. Non si da più peso agli insegnamenti degli antichi, ai valori, quelli veri, su cui è nata la nostra attuale società e, anche per questo motivo, gli anziani sono messi da parte. Non sanno cosa sia il computer, il marketing e per questo sono considerati poco importanti non solo dalla famiglia, ma anche da quel governo che hanno visto crescere e, per certi versi, anche morire sotto i loro occhi, quello stato per cui hanno combattuto anche due guerre, quello stato che ora priva loro anche di quella misera pensione che gli consentirebbe di andare avanti. Tolstoj diceva che “la vecchiaia è la più inattesa tra tutte le cose che possono capitare ad un uomo”, quasi come una disgrazia. E non sarà forse vero che la vecchiaia è il castigo di essere ancora vivi? A questo punto, sarebbe quasi doveroso dare ragione a Oliviero Toscano anche se, come diceva Marylin, “evitare la vecchiaia vorrebbe dire non completare la propria vita, non conoscersi veramente”
GIORGIA AIDALA III A

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