Storie di eroine del velo nella letteratura italiana

Unknown

Nell’Italia del XVII secolo le donne, spesso le monache, appartenenti a importanti famiglie locali, venivano prelevate con la forza dalla loro vita monastica e costrette a fare da pedina di scambio nella politica matrimoniale di riappacificazione, insanguinata da continue lotte e faide fra famiglie rivali, come dimostra la vicenda di Piccarda Donati: entrò nel convento delle clarisse in contrasto con le decisioni familiari. Una notte il fratello e i suoi uomini entrarono nel convento rapendola, e la costrinsero alle nozze; poco dopo Piccarda si ammalò e morì prima di sposarsi, morendo con l’abito di clarissa: forte era la sua devozione. D’altra parte, però, un altro tipo di “violenza” e costrizione che le donne erano spesso costrette a subire era la cosiddetta monacazione forzata.

 La legge del Maggiorasco, allora vigente in tutta Europa, stabiliva che il patrimonio, alla morte del padre, non si dovesse dividere fra i vari figli (in parti uguali o no) ma dovesse passare tutto in eredità al primogenito. Gli altri figli, chiamati figli cadetti, per non far sfigurare la famiglia, erano costretti a mantenersi con le proprie forze attraverso la carriera ecclesiastica o quella militare. Va tenuto conto però che per i figli maschi c’era una maggior possibilità di scelta: essi potevano mettersi al servizio del primogenito, intraprendere il mestiere delle armi (che poteva a volte risultare particolarmente redditizio), arricchirsi per proprio conto nelle fila della borghesia cittadina o scegliere la carriera ecclesiastica.
 Per le donne, invece, non c’era scelta: l’unica strada erano i voti e una vita in convento interamente dedicata alla preghiera. Anche il matrimonio era a volte categoricamente escluso, in quanto la dote da portare all’altare era di gran lunga maggiore di quella da versare al convento per la monacazione di una figlia.
Ad esempio, nella Repubblica di Venezia, la dote matrimoniale ammontava a 15.000 ducati, mentre il monastero si accontentava anche di 1.200.
 A testimonianza di come questa pratica divenne ben presto un vero e proprio problema sociale, sta la disputa nata fra la Serenissima e la Chiesa riguardo la regola monacale. Dal momento che nella Repubblica lagunare si dava ormai per scontato che quasi tutte le monache che prendevano i voti negli ultimi tempi lo facevano contro la loro piena volontà (e in effetti così era), si tentava di smussare la durezza della regola monacale per quanto riguardava il vestire, il mangiare e i contatti fra le monache e l’esterno. Al contrario la Chiesa, esitante ad adattare la regola secolare alla pur evidente verità, voleva mantenere intatti, se non addirittura inasprire, tali obblighi e restrizioni.
 Sono eloquenti le parole di un Magistrato veneziano addetto ai conventi: “Quelle che vivono in Monastero come in un deposito son in numero tale che se fossero libere sarebbe sovvertito l’ordine di tutta la città.”
 La letteratura non rimase indifferente ai drammi della monacazione forzata, che fu un tema molto trattato da tutta la letteratura europea, in particolare quella italiana e francese. Così, ad esempio, in Inferno monacale la suora Arcangela Tarabotti, sfruttando l’unica libertà ancora pienamente concessale, e cioè quella di scrivere, denuncia con una forza dovuta alla simile esperienza vissuta sulla propria pelle, quel luogo che i parenti presentano alle fanciulle come un paradiso terrestre e che a poco a poco si rivela loro come inferno […] perché privo di speranze di uscire”.
  Esempio memorabile è quello del La Religieuse, di Denis Diderot, che testimonia come tale condizione femminile persista nella Francia prossima alla Rivoluzione: la protagonista delle vicende narrate è Suzanne Simonin, figlia adulterina appartenente a un’importante famiglia aristocratica che, in età da marito, è costretta a chiudersi in convento, abbracciando la vita monastica. All’inizio della sua permanenza a Longchamp Suzanne è quasi sollevata da quella che ritiene un’inaspettata serenità, dopo un’infanzia di angherie e soprusi da parte di una famiglia che la considerava inutile e scomoda, ma si rende ben presto conto che, dietro a rapporti di apparente tranquillità, si nasconde una terribile scia di violenza fisica e psicologica nei confronti delle incolpevoli recluse come lei. Suzanne, allora, decide di tornare in seno alla famiglia, ma l’astio e la freddezza con cui viene accolta la riportano ben presto in convento, dove torna a essere vittima dell’istituzione che la imprigiona e che non le ha perdonato l’iniziale ribellione alle sue regole ferree. Nonostante la presenza di alcune compagne leali e degne di fiducia, il fragile equilibrio di Suzanne si spezza di nuovo, dopo anni di reclusione e la donna decide di fuggire, rifugiandosi a Parigi, dove morirà poco dopo, rifiutata da tutti, sola e consapevole che non potrebbe esserci altra via d’uscita alla sua condizione, se non la morte. Anche Verga dedicò un romanzo a questo tema: Storia di una capinera, ambientato nell’Italia meridionale della seconda metà dell’Ottocento, in cui la monacazione forzata è ancora una tradizione fortemente consolidata: Maria incontra il giovane Nino, come lei sfollato assieme alla famiglia per sfuggire all’epidemia di colera che incombe su Catania. La vita libera e spensierata all’aria aperta, nell’incanto dei boschi e delle campagne, avvicina i due giovani. La storia d’amore tra i due giovani prosegue: s’incontrano, si sfiorano, si baciano. la vita del convento le sembra adesso soffocante e vuota. Viene separata a forza dal giovane Nino; si ammala e, una volta guarita, viene rinchiusa definitivamente in convento.
La terza parte si apre, un anno dopo. Intanto le annunciano che la sorella Giuditta sposerà Nino. Per il dolore, Maria entra in un delirio quasi folle. Tenta la fuga, ma senza successo: perciò viene reclusa nella cella delle monache pazze. 
 Eppure è ne I promessi sposi, con il personaggio della monaca Gertrude, che si ha l’esempio più drammatico di questa condizione. Infatti Gertrude, più che con la forza, è costretta a prendere la toga attraverso una costante pressione psicologica dal momento della sua nascita, in cui lo stato di secondogenita aveva già segnato il suo destino. Da piccola, i suo regali consistevano in piccoli santini, bambole vestite da suora e lo stesso linguaggio che si usava con lei era finalizzato ad abituarla a quello del monastero. La monacazione sembra per Gertrude l’unica scelta possibile, perché è l’unica che riesce a immaginare. Le catene le vengono assicurate quindi non al corpo ma alla mente. Scopre troppo tardi, ormai già nel convento, gli istinti vitali che le erano stato negati, e finisce con l’innamorarsi dello scellerato e perverso Egidio, che la trascina nella complicità verso i suoi crimini, spingendola a tradire la stessa Lucia che nel convento si era rifugiata.
Monica Leanza V A

Precedente La vita monastica: inferno o paradiso Successivo La vita monastica: da Piccarda nella Commedia a Gertrude nei Promessi Sposi