Le donne e la vita monastica

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Sin dal Medioevo, la donna ha avuto un ruolo secondario nella vita sociale, politica ed economica. Essa non ha mai avuto, infatti, la facoltà di decidere della propria vita e del proprio destino ed è sempre stata usata per interessi personali della famiglia alla quale apparteneva.
Durante il corso della storia, da Piccarda Donati a Gertrude, la donna è sempre stata una pedina nelle mani di padri prepotenti che, attraverso violenze, poco hanno lasciato da scegliere alle loro figlie.
La legge del Maggiorasco, allora in vigore in tutta Europa, stabiliva che il patrimonio, alla morte del padre, non si dovesse dividere fra i vari figli, ma dovesse passare tutto in eredità al primogenito. Gli altri figli, chiamati cadetti, erano costretti a mantenersi con le proprie forze attraverso la carriera ecclesiastica o quella militare. Però, mentre per i figli maschi c’era una maggior possibilità di scelta, come mettersi al servizio del primogenito, intraprendere il mestiere delle armi, arricchirsi per proprio conto nelle fila della borghesia cittadina o scegliere la carriera ecclesiastica, per le donne non c’era scelta: l’unica strada erano i voti e una vita in convento interamente dedicata alla preghiera. Anche il matrimonio era a volte categoricamente escluso, in quanto la dote da portare all’altare era di gran lunga maggiore di quella da versare al convento per la monacazione di una figlia e, quindi, sostanzialmente sconveniente.

Gertrude, più che con la forza, è costretta a prendere il velo attraverso una costante pressione psicologica dal momento della sua nascita, in cui lo stato di secondogenita e di donna aveva già segnato il suo destino. Da piccola, i suoi regali consistevano in piccoli santini, bambole vestite da suora e lo stesso linguaggio che si usava con lei era finalizzato ad abituarla a quello del monastero. La monacazione sembra per Gertrude l’unica scelta possibile, perché è l’unica che riesce a immaginare. Le catene le vengono poste, quindi, non al corpo, ma alla mente. Scopre troppo tardi, ormai già nel convento, gli istinti vitali che le erano stato negati, e finisce con l’innamorarsi dello scellerato Egidio, che la trascina nella complicità verso i suoi crimini, spingendola ad azioni inconsapevoli, come tradire la stessa Lucia che nel convento si era rifugiata.
Un destino ed una violenza diversi avevano travolto, molti secoli prima, Piccarda Donati, che decide spontaneamente di dedicarsi alla vita monastica e a alla preghiera, come ci racconta Dante nel III canto del Paradiso. Verrà strappata, tra il 1283 e il 1293, dal convento dell’Ordine delle Clarisse, per conto del fratello Corso Donati. E qui l’ennesima storia di una donna usata come pedina per interessi politici ed economici, per la riconciliazione di faide tra famiglie che erano in costante lotta tra loro.
Piccarda sarà costretta a sposare Rossellino della Tosa, morirà subito dopo le nozze e sarà la prima persona che Dante incontrerà in paradiso. Ciò che caratterizza Piccarda è il senso di coralità che accompagna la sua condizione di spirito beato.
La critica romantica (De Sanctis) ha visto in Piccarda una sorta di conflitto fra celeste e umano, come se il personaggio, pur nella gloria del Paradiso, serbasse una sorta di rimpianto per quella pace del chiostro a cui fu strappata. La critica novecentesca (a partire da Leone de Castris) ha, invece, messo in luce la profonda coerenza psicologica e morale dell’episodio: Piccarda ritrova in cielo proprio ciò che ha smarrito per colpa altrui in terra, porta a termine quella promessa che aveva visto crudelmente interrotta.
Nel corso degli anni, e dei secoli, alla donna, in un modo o nell’altro, non è stata data la possibilità di essere padrona della propria identità e, solo dopo la seconda metà del 1900, essa ha avuto il permesso di scegliere e partecipare alla vita sociale e politica.
Ancora oggi la donna è, delle volte, messa in secondo piano e nei paesi orientali, i suoi diritti sono gli stessi, o addirittura minori, del medioevo che tanto ormai sembra lontani.

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