L’ATTIMO CHE FUGGE

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L’attimo. Ma cos’è l’attimo? Chi, da bambino, non chiede cosa esso sia? Quanto duri?
Beh, letteralmente, è un brevissimo spazio di tempo, un momento fugace.
La parola è stata coniata solo nel XIV secolo sebbene, mutatus mutandi, sia un tema ricorrente sin dal VII secolo a.C.
Da Alceo a Orazio, da Saffo a Foscolo, da Mimnermo a Catullo, questi insolubili paradossi sono sempre riusciti a scuotere l’animo di autori appartenenti ad ogni tempo ed epoca.
Alceo, già nel VII secolo a.C., aveva potuto osservare, e capire, quanto fugace, ed effimera, fosse la vita. Per questo invita, in alcuni dei suoi frammenti, a godere di ogni momento poiché il giorno è solo un attimo.

Allo stesso modo la pensava Orazio nella celebre ode a Leuconoe: «sia che sia questo inverno l’ultimo che Giove ti ha concesso, sia che te ne abbia concessi ancora parecchi, sii saggia, filtra il vino e taglia speranze eccessive, perché breve è il cammino che ci viene concesso». Egli invita l’interlocutore a non chiedersi quanti inverni gli restino ancora da vivere, a fidarsi il meno possibile del domani e a cogliere l’attimo.
Il famoso carpe diem di cui tanto si parla, implica l’impossibilità per l’uomo di conoscere il futuro, né, tantomeno, di determinarlo. Solo sul presente l’uomo può intervenire e solo sul presente, quindi, devono concentrarsi le sue azioni e, in ogni avvenimento, deve sempre cercare di cogliere le opportunità che gli si presentano, senza alcun condizionamento derivante da ipotetiche speranze o ansiosi timori per il futuro.
La vita è come una clessidra: indipendentemente da scelte, gioie, dolori, i granelli continuano, inesorabilmente, a scivolare sull’altro lato dell’ampolla e non ci si può far nulla, sta all’uomo deciderne il peso.
Tutto ciò ha, però, un altro lato della medaglia, e giunge alla mente il pensiero di uno dei primi scrittori, di uno dei più grandi: quello di Omero. Il poeta, paragonando, come poi in seguito altri autori, metaforicamente, gli uomini alle foglie, non mira a sottolineare la precarietà della vita, bensì la fiducia riposta nella continuità, nella ciclicità della vita. Perché, se è vero che come le foglie in autunno cadono, gli uomini, arrivati all’inverno della vita, periscono, è anche vero che con la morte non finisce tutto, ma solo la vita terrena di un determinato uomo. Per Omero, ciò di realmente importante, è lasciare in terra princìpi e ideali che, in seguito, si potrebbero trasmettere ai posteri e ricordare che l’uomo non è uomo in quanto tale, ma in quanto umanità.
Risulta chiaro che qualche secolo fa si rispettava la vita, si aveva quasi timore di essa, cercando di porsi quasi al di fuori dall’interminabile e continuo ciclo distruttore del tempo sebbene, come ben si sa, non tutti (gli antichi) la pensassero allo stesso modo.
Molti parlano della fugacità del tempo, ma solo Omero si concentra realmente su quello che avrebbe dovuto essere, sin dall’inizio, lo scopo principale dell’uomo: il contributo a quella così grande causa che è la razza umana.
Catullo scriveva: «i giorni [i soli] possono tramontare e ritornare; noi, una volta che la breve luce è tramontata, dobbiamo dormire un’unica notte eterna».
Indipendentemente dalla concezione che ogni scrittore aveva ed ha, di vita, e soprattutto, di morte, il tema che ricorre, come, quasi un tormento, come si fosse in una spirale, dal VII secolo a.c. ad oggi, è il dover godere della vita, di ogni attimo.
Forse, però, è questo che sfugge all’uomo di oggi, alla costante ricerca della felicità. Sfugge a lui il luogo in cui potrebbe, ipoteticamente, trovarla: in quei piccoli attimi fuggenti, magari, che mai più torneranno.
Molti studiano come allungare la vita, (diceva Luciano De Crescenzo) quando, invece, bisognerebbe allargarla.
AIDALA GIORGIA IV A

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