Lasciate ogni speranza voi ch’entrate

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Durante il XVII secolo si era diffusa anche in Italia, una legge che deve la sua esistenza alla Spagna, la cosiddetta legge del Maggiorasco. Questa prevedeva che, all’interno della famiglia, alla morte del padre, il patrimonio non venisse distribuito a tutti i figli, ma che venisse concesso soltanto al primogenito. Gli altri figli, detti figli cadetti, nel caso in cui fossero maschi, avevano una maggiore possibilità di scelta, le donne da questo punto di vista erano svantaggiate, infatti i maschi potevano o intraprendere il mestiere delle armi o darsi alla monacazione; tutto questo per non far sfigurare la famiglia e per fare in modo che l’eredità della famiglia non si disperdesse.
Quella delle donne, dunque, era una monacazione forzata e la letteratura non rimase indifferente riguardo a questo problema. Non fu soltanto un tema trattato all’interno dei confini d’Italia, ma riguardò tutta la letteratura europea, in particolar modo quella italiana e francese.

Chiunque si sarà ritrovato a leggere le pagine de I Promessi Sposi, di Alessandro Manzoni, e leggendo il libro sarà stato colpito dalla vita della monaca di Monza, Gertrude. La vicenda di Gertrude si distingue in due momenti: quello in cui si rivela essere vittima del volere di un padre egoista e crudele, che pone alla figlia l’obbligo della monacazione; ed un momento in cui ella diventa preda del peccato, in quanto, nonostante accetti, mal volentieri, il volere del padre, riesce a trovare e a cedere, all’interno del convento, alle adulazioni d’un uomo.
«Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Ger. 1,4-5).
La monaca di Monza, infatti, era già predestinata irrevocabilmente alla vita ecclesiastica. Il padre faceva in modo che la figlia conoscesse soltanto il mondo del convento, tant’è che sin da piccola era stata abituata ad immaginare quell’unica realtà.
Facendo un passo in avanti nella storia della letteratura, dopo Manzoni, sarà Giuseppe Verga a riportarci un esempio e al tempo stesso una testimonianza di vita monacale forzata, quella di Maria, una giovane siciliana, che viene costretta a ritirarsi a vita monastica in un convento di clausura catanese. 
“Avevo promesso di scriverti ed ecco come tengo la mia promessa! In venti giorni che son qui, a correr pei campi, sola! tutta sola! intendi? dallo spuntar del sole insino a sera, a sedermi sull’erba sotto questi immensi castagni, ad ascoltare il canto degli uccelletti che sono allegri, saltellano come me e ringraziano il buon Dio, non ho trovato un minuto, un piccolo minuto, per dirti che ti voglio bene cento volte dippiù adesso che son lontana da te e che non ti ho più accanto ad ogni ora del giorno come laggiù, al convento.” (Storia di una capinera, 1869- Giovanni Verga).
Attraverso queste parole, può essere compreso come la ragazza, essendo stata costretta a dedicarsi esclusivamente alla preghiera rivolta a Dio, sin da quando era una bambina, si senta imprigionata dentro ad una gabbia come una capinera, un uccello, nutrendo il desiderio di uscire ed essere finalmente libera.
Un’altra donna, sempre ostacolata e costretta dalla famiglia, è Arcangela Tarabotti, la quale era la primogenita e lievemente zoppa. Questa fu destinata a trascorrere tutta la sua vita all’interno del convento, ma nonostante ciò si appassionò alla lettura di libri profani e, ogni qual volta veniva scoperta, le venivano sottratti e bruciati.
Arcangela, quindi decise di menzionare Dio, dichiarando di aver avuto una visione in cui Egli stesso le suggeriva di scrivere; la donna infatti si accingerà alla composizione di tre libri, all’interno di uno di essi scrisse:
“Vi dedico dunque quel’Inferno, a cui perpetuamente condanate le vostre visere, per preludio di quello che dovete goder etterno, restando di voi, scandalizzata sempre, più che Angela della Madre della Donzella del’Inferno Monachale.” (Inferno Monachale XVII secolo).
La suora, ancora una volta, cerca di descrivere la difficoltà di condurre una vita che non si è scelta e l’avvilimento dell’animo nei confronti di una vita che non si vuole.
Ciò che emerge non è soltanto l’impossibilità di scegliere su cosa fare della propria vita, ma cosa più importante, e che si insedia nella mente dell’uomo, è come la donna sia sempre stata vista come un “oggetto” al quale non possa essere concesso il diritto di rivendicare la propria condizione e vivere da sottomessa, accettando tutte le decisione che vengono prese al posto suo.
Le donne costrette alla monacazione forzata non si contano sul palmo di una mano, ma sono molteplici e, poiché si tratta di un problema ormai dibattuto e risolto in passato, non molti si soffermano sull’argomento immaginando come potesse essere realmente vivere quella situazione.
Diverso nome, ma stesso destino e desiderio, ovvero quello di poter vivere la propria vita, senza che nessuno interferisca con essa, perché in primis sono i parenti, quelli a cui, solitamente, si da ascolto e importanza che, anziché guidare e sperare, impongono un obbligo a priori ad un adolescente privo d’esperienza, mostrando soltanto una delle due facce della medaglia, quella che più segue i loro interessi.
“Il faut peut-être plus de force d’ âme encore pour résister à la solitude qu’ à la misère; la misère avilit, la retraite déprave.” (La Religieuse, 1780- Denis Diderot).
Usando queste parole, l’autore vuole far capire a chi legge che è meglio vivere una vita misera, senza alcun tipo di ricchezza, piuttosto che vivere all’interno di un convento, avendo la sola possibilità di ammirare la vita che si è sempre desiderata attraverso delle mura che prendono la forma di sbarre, proprio come quelle di un carcere. Ecco che Diderot, all’interno del libro “La Religieuse”, descrive la difficile esperienza di Suzanne Simonin, la quale avendo dichiarato apertamente di non appartenere al mondo della vita ecclesiastica, viene molestata moralmente e fisicamente, continuando a sperare di poter sfuggire a quel destino crudele.
Il motivo di questo atteggiamento ostile nei confronti delle donne, probabilmente, non salterà mai fuori, a meno che non si faccia riferimento al fatto che venga considerata “il sesso debole”, ma in realtà, anche se sono passati un sacco di secoli, c’è qualcuno che ha afferrato il concetto:
“Le donne lo sanno, c’è poco da fare, c’è solo da mettersi in pari col cuore.
Lo sanno da sempre, lo sanno comunque per prime.” (Le donne lo sanno, Ligabue).
Le donne sanno che non c’è niente da fare, sanno di essere dotate di un potenziale che, per loro sfortuna, non sempre può essere impiegato nelle varie situazioni che si presentano nel corso della vita e per questo l’unica cosa da fare è accettare, dire di sì anche quando serve della forza e tanta volontà per farlo.
“Tutte le gioie del mondo lasciano in fine un senso di amarezza…tutte!” (Storia di una capinera, Giovanni Verga).

Martina Caruso V A

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